L'Atletico San Lorenzo, nel corso dei suoi ormai sette anni di vita, ha visto crescere vistosamente, accanto al numero di squadre iscritte ai vari campionati, anche il numero, e la qualità, di atlete e atleti, nonché del personale tecnico che quotidianamente li allena.
Con la rubrica "L'osteria del pallone" diamo loro la parola: ci racconteranno le loro esperienze sportive, in campo e in panchina, i loro credo calcistici, cestistici e pallavolistici, le partite più belle che hanno disputato difendendo i nostri colori.
Oggi è il turno di Mavi Rambaldi, pivot della squadra di basket femminile rossoblu.
A lei la parola.
Ciao Mavi, raccontaci la tua biografia sportiva.
Ho iniziato a giocare a basket alla scuola elementare. Tra le attività di dopo-scuola c’era il minibasket e mio padre, ex-cestista, segnò me e mio fratello più piccolo. Avevo 7/8 anni, ma ero già alta come un fenicottero ed ero veloce… non ero male. L’allenatore mi prendeva ad esempio per dire alle/agli altre/i come dovevano fare l’esercizio. Se lo fai ogni tanto ok... ma se lo fai sempre: insomma, anche meno dai. Risultai poco simpatica alla squadra a causa di questo fatto, ahimè.
Un giorno mi propose di fare qualche gara di atletica. Ricordo ancora la mia prima gara di corsa: una gara regionale, ma nessuno mi aveva detto che avrebbero sparato al via. Dopo lo sparo, partii con 5 secondi di ritardo per lo shock e invasi le corsie di tutti/e gli/le avversari/e ancora confusa con quelli/e che gridavano: “Hey, ma non puoi!”. Arrivai settima. Forse ero davvero un talento nascosto? Non lo sapremo mai. Lo sport da piccola lo fai per divertirti e stare con le tue o i tuoi amici/che. In più il campo per gli allenamenti c’era solo alla Farnesina ed era lontano da casa. Bye bye alla carriera nell’atletica. In memoria di quei giorni, resto una delle più entusiaste in squadra per gare di corsa o scatti in preparazione atletica. Mi è stato giustamente ricordato da un mio ex-allenatore molto amato un giorno: “Mavi va bene correre eh… ma lo scopo è segnare”: ogni tanto cerco di ricordarmelo Luca, giuro!
Lasciai anche il minibasket: mi venne una brutta tendinite verso la quarta elementare e mi sembrò la scusa perfetta per smettere dato che non mi divertivo molto. Per seguire le mie amiche provai danza classica e pallavolo. Niente da fare. Provai a gettarmi nella mischia in una partita di calcio in cortile. Non credo che i bambini mi abbiano scelta più che altro mi hanno vista: sono entrata in campo e ho tirato in porta. Fui acclamata per qualche secondo ma poi la parentesi calcio fini lì e io per loro tornai UNA FEMMINA. Un lungo periodo di pausa dallo sport e poi a 15 anni a forza di vedere partite di mio fratello (che aveva sempre continuato a giocare) ci riprovo col basket nel BKP (Basket Primavalle) dove conosco alcune tra le mie ancora attuali amiche. Una in particolare che ritroverò più di 10 anni dopo, Giulia. Non avevo quindi e non avrò mai i fondamentali di questo sport, ma continuo a giocare e non lo mollo più: dopo il BKP ho giocato in Petriana, al Millesimo e alla UISP XIII. Quando l’ennesima squadra femminile si scioglie mi chiedo: e ora dove vado a giocare? Mando qualche messaggio, ma siamo a campionato iniziato e quasi nessuna squadra prende una senior, SENZA FONDAMENTALI, col campionato in corsa. Poi Giulia, la mia famosa ex compagna del BKP, mi risponde: “Devi provare al San Lorenzo, io gioco qui, vieni dai, vedrai che ti piace l’ambiente!”. E c’hai proprio preso Giuliè! Ti dovrò sempre una birra per questo.
Quali sono le atlete dello sport mainstream (del presente o del passato) a cui ti ispiri? Perché?
L’atleta del presente: Alessandra Tava (qui in un video pubblicato da Basket Progresso), detta “ApeTava”, giocatrice di A1 a Bologna. Tava è un uragano di energia e positività, grintosa e piena di talento. Come ti rimbambisce lei con il piede perno sotto canestro nessuna mai. Danza e ronza proprio come un’ape sotto al ferro.
L’ atleta del passato senza ombra di dubbio: Kathrine Switzer. Prima donna a correre la maratona di Boston nel 1967 (qui in foto) dovette iscriversi nascondendo la sua vera identità e durante la corsa ricevette insulti e aggressioni, ma continuò, arrivando fino alla fine. La sua non fu una semplice maratona ma una corsa verso l’auto-determinazione delle donne nello sport. Una sfida che non abbiamo ancora smesso di correre tutte insieme.
Qual è il/la giocatore/giocatrice più forte con cui hai mai giocato?
Il giocatore più forte con cui ho mai giocato è l’atleta che gioca fuori dal campo. Ma come chi? Le tifose e tifosi! Il tifo è l’atleta che non si presenta al riconoscimento, ma che quando entra ti svolta le partite, quando fai fatica a trovare la motivazione ti ricorda che la vittoria è stare lì, insieme e che è fuori di testa per te! Ha un numero di maglia che ogni anno cambia, come gli anni di questo sogno atletico, attualmente porta il 7. La sportività è un suo valore: non tifa contro, ma sempre a favore della squadra. Io un atleta più forte di così, prima dell’Atletico San Lorenzo, non l’ho mai avuto accanto mentre giocavo.
L'avversario/a più ostico/a da affrontare?
L’emozione. Quella ti frega sempre. Quando non vuoi deludere un tifo così bello o vuoi vincere una semifinale… ti gioca brutti scherzi e ti delude tanto. Per colpa sua, cosa ancora più brutta, puoi deludere una tua compagna e non riuscirai a dormire serena per tutta la notte a venire. Ma fa parte del gioco, continui a fare scivoloni e a rialzarti, a cercare l’equilibrio chiedendo aiuto o scusa alle compagne quando non ce la fai. (Alle mie compagne di squadra voglio dire: se ve state a chiede se questo è un modo per chiedere scusa di tutti i momenti in cui ho perso di lucidità o mi sono offesa in maniera terribile per una cosa detta in un momento di agonismo: sì. Smetterò di farlo? forse no. Però ve voglio bene.)
Quale metodologia d'allenamento ti è più congeniale?
Una metodologia in cui chi allena consiglia o critica in modo costruttivo, non distruttivo. Non serve umiliare o stressare una giocatrice in campo. Queste dinamiche di potere sono anacronistiche, ce le portiamo dietro da una falsa retorica che vuole la vincente come una che se la insulti dà di più, fredda, priva di empatia per avversarie o compagne di squadra. Durante l’allenamento non si allena solo l’atleta, ma la squadra: a stare insieme, a non andare giù quando una cosa non riesce. Se ci si incita l’un l’altra in allenamento, ci si incita sempre.
Quale ti diverte di più e quale ritieni maggiormente efficace dal punto di vista sportivo?
Mettere a sistema le differenze e i punti di forza di ogni giocatrice è per me la cosa più efficace. Se ognuna crede in una cosa che sa fare e si costruisce un sistema di gioco in cui ognuna può mettere a valore quella competenza perché riceve fiducia e di conseguenza si fida delle compagne: la squadra è più forte. È più completa e resistente. Le squadre che accentrano il gioco su di una giocatrice possono vedere quella giocatrice segnare tanto e vincere ma non vedranno la squadra crescere. Se poi questa giocatrice ha una giornata no… beh, non sarà bello vedere le altre prendersi le sue strillate date dalla frustrazione o quelle delle/del coach e abbassare la testa. Cosa che mi è capitata di vedere.
Cosa ne pensi della federazione a cui è affiliata la tua squadra (Fip)?
Della Fip penso che non abbia mai sostenuto adeguatamente - e continui a non farlo - il movimento della pallacanestro femminile. Le squadre sono poche, questo perché i campionati sono molto costosi e gli sponsor scarseggiano. Si è costrette ad unire i gironi tra le regioni o tra le categorie per arrivare ad un numero sufficiente di squadre per svolgere un campionato. Fin quando non sono approdata all’Atletico ho pagato fino a 500 euro all’anno per giocare in una serie C. Giocavo con il nome della società sulla maglia, ma quei soldi dovevo darli io. Trattata sostanzialmente come una qualsiasi cliente dell’impianto sportivo. Un anno eravamo in 11 a luglio… servivano almeno 15 ragazze per iscriversi al campionato dell’anno dopo. E che si fa? La società sportiva in pratica rispose: “Se non potete pagare daremo lo spazio al gruppo di 50enni amici che si allenano ogni tanto, almeno loro pagano, oppure apriamo al minibasket, lì pagano i genitori e si fanno più soldi.” La Fip in questo ha serie responsabilità. I costi sono troppo elevati ed alcune pratiche (come quelle del tesseramento) sono davvero assurde e obbligano le società a spendere tantissimi soldi per far giocare un’atleta ogni anno.
Ritieni adeguati i provvedimenti di ciascuna federazione a sostegno delle squadre iscritte?
Per il momento ci sono state delle sospensioni nei pagamenti e pare che ci saranno degli sconti per il prossimo anno. Ma occorre rendersi conto che in una situazione come quella post-covid sarà difficilissimo per tante realtà ripartire nonostante gli aiuti e paradossalmente, per una realtà di sport popolare come la nostra che non si basa sugli sponsor ma sulle quote popolari sarà più facile reggere il colpo. Noi ragioniamo sempre senza sponsor. Le altre realtà no. Questo sistema ha tantissimi limiti e non si considera la difficoltà di accessibilità ai campi di questa città. Pochissimi campi a norma per svolgere una partita di Fip e ad un costo di affitto molto alto che si sommano alle spese dei campionati. Ovviamente, dato che le squadre femminili di serie C e B a Roma hanno meno soldi di quelle maschili, saranno quelle più colpite dal post-covid. Si vocifera addirittura di una fusione tra campionato di serie C e campionato di serie B. Staremo a vedere.
Cosa cambieresti e cosa pensi debba fare una squadra di basket popolare all'interno delle federazioni?
Vorrei cambiare l’assunto per cui solo chi ha soldi, la cittadinanza italiana e vive in un quartiere dove ci sono impianti sportivi possa fare basket liberamente e a tutti i livelli. Inoltre, per sostenere il movimento femminile e contrastare gli stereotipi di genere nello sport, la FIP dovrebbe sostenere queste squadre. Molte società attivano il minibasket, ma poi, quando le ragazze crescono, non hanno una squadra dove farle giocare. Io da bambina non avevo esempi di donne giocatrici a cui ispirarmi e ho mollato per molti anni. Magari se avessi avuto un modello non lo avrei fatto o per lo meno avrei saputo che si poteva essere anche una giocatrice di basket senza farlo a 15 anni e solo perché avevo un cestista in famiglia.
Stare dentro un campionato federale con la nostra squadra di serie C femminile equivale a portare in campo un modello diverso e dimostrare che si può fare sport, divertirsi e, perché no, essere competitive in un altro modo. Il sistema-federazione ti spinge verso la tassazione degli e delle atlete/i o la ricerca di un grande sponsor, ma se scegli un’altra direzione, la segui e riesci… diventi una critica viva e vibrante a quel sistema e lo sei dall’interno.
Un altro genere di sport è possibile? Lo sport può essere vettore di un nuovo modo di vivere e pensare un mondo libero da sessismo ed omofobia?
Un altro genere di sport è e deve essere possibile. Uno sport libero dal sessismo! Lo sport è un luogo dove si intrecciano persone, identità, orientamenti differenti. Lo sport abbatte i muri del pregiudizio perché ti costringe a vedere l’altra/o da vicino. Un altro/a che magari non avresti mai incontrato. La nostra è una società ancora fortemente patriarcale: i dati sui femminicidi non accennano a diminuire, le donne in posizione di potere sono in numero ancora fortemente inferiore rispetto agli uomini, a parità di mansione guadagnano di meno rispetto al collega e in casa i lavori di cura sono distribuiti con un carico che pesa ancora esclusivamente sulla donna. È inevitabile che questo sessismo si rovesci in un campo sportivo. Un campo, così come uno spogliatoio o una serata di squadra, sono luoghi di vita e in essi riportiamo inevitabilmente stereotipi, linguaggi e immaginari sessisti. Il primo punto da cui partire è che lo stereotipo è invisibile, va de-costruito e si nasconde dietro al “ma è normale”, “ma è naturale”. È una gabbia invisibile dall’esterno e a volte anche dall’interno, ma che ti confina lo stesso e in ogni istante ti chiede di catalogare le cose secondo un maschile e un femminile che la società ha deciso per te. Questo condiziona le tue scelte e le tue azioni sia se aderisci a questo sistema, sia se scegli di non aderire perché ti pone davanti a tante sfide. Lo sport può essere anti-sessista. Sì, può scegliere come agire, che modelli e che regole della società portare e quali lasciare fuori da campo. Come il fuori condiziona il campo da gioco, il campo da gioco condiziona quello che sta fuori. È questa la potenza trasformatrice dello sport! Attualmente il sessismo nello sport agisce innanzi tutto nello squilibrio che esiste tra la ricchezza dell’immaginario legato alle sportive e agli sportivi. Questo agisce molto nelle bambine nel limitare il loro immaginario e quindi la loro capacità di proiettarsi, di pensarsi in un futuro come sportive. Gli sport vengono raccontati e rappresentati quasi unicamente al maschile e quando si vede una donna ancora si sentono (sui giornali e nelle tv nazionali o sui social) commenti sulle abitudini sessuali, sul corpo o sul fatto che sia o non sia madre. Questo sessismo è perfettamente coerente con l’esclusione delle donne dal professionismo sportivo da regolamento CONI, prima grande discriminazione che rinforza tutte le altre nello sport. Ora qualcosa si sta muovendo (nel mondo del calcio soprattutto prima e dopo i recenti mondiali), ma la strada è ancora lunga e non ci accontenteremo certo di qualche tutela in più se il sistema sportivo non cambierà in un’ottica veramente paritaria dal punto di vista di genere.
Un altro modo in cui agisce il sessismo, uno dei più forti, è il linguaggio. Questo avviene nello sport come in tutto il resto. Come si parla e come si nominano le cose. Il linguaggio dona forma ai pensieri che a loro volta condizionano i comportamenti. Nessuno/a di noi è del tutto libero/a da un immaginario sessista. Partiamo da questo presupposto. Siamo tutti e tutte portatrici di stereotipi. Il punto non è eliminarli del tutto, sarebbe impossibile, ma de-costruirli. Avere e fornire strumenti per riconoscerli e analizzarli con senso critico. Se siamo allenatrici o allenatori e vogliamo incitare una bambina o un bambino in campo, eviteremo di dire :“sii cazzuto/a”; “gioca da uomo”; “tira fuori le palle” o “non giocare da femmina” (cose che mi sono sentita dire, tutte, ripetutamente.) Se c’è un altro modello, ci sono anche altre parole per esprimerlo. E se invece uso quelle parole che immaginario sto rafforzando? Gli sportivi o gli allenatori uomini non dovrebbero sentirsi minacciati dalle mie parole perché non sto volgendo loro alcuna accusa: avere un privilegio in questa società non è una colpa, semmai una responsabilità. Cosa diversa. È la responsabilità di essere consapevoli di questo privilegio e chiedersi: “come lo voglio usare?”. In quanto atleta donna bisessuale e cisgender anche io ho un privilegio. Rispetto ad esempio ad una atleta trans? Sì, probabilmente ce l’ho. Le atlete e gli atleti trans sono tra le più e i più discriminate/i e in molti casi non praticano sport perché non percepiscono nei luoghi di sport degli spazi sicuri. Io non avrei problemi ad usare un bagno pubblico o a farmi la doccia nello spogliatoio, ma non poso dare per scontato che per una atleta trans sia così. Non è colpa mia se questo avviene, ma ho una responsabilità anche io, nel mio personale, affinché questo cambi che non significa sostituirmi a lei/lui nella sua lotta di auto-determinazione. Essere un’alleata però questo sì! Essere alleato/a significa anche capire quando fare un passo indietro e dare parola a chi fino ad ora ha avuto meno privilegi in questa società.
Un’altra riflessione che voglio fare riguarda l’omofobia e il binarismo di genere. L’omofobia in campo e nello spogliatoio colpisce pesantemente le persone gay, lesbiche e bisessuali, che possono essere prese in giro o nascondere per paura il proprio orientamento. Una divisione netta e stereotipata di cosa è maschile e cosa femminile (ovvero il binarismo di genere), schiaccia e discrimina le persone gay, lesbiche, bisessuali, trans, inter-sex e può far male anche a quelle etero e cis. Se sei etero e cis, ma non rientri nello stereotipo del maschile o del femminile vieni giudicato/a, e frasi omofobe come: “ma che sei gay? ma che sei lesbica?” possono essere rivolte anche a te: non ti sentirai in uno spazio protetto nello spogliatoio, né libero/a di parlare di te, di chi sei. Il sessismo, l’omofobia e il binarismo di genere nella vita e nello sport fanno male a tutti e tutte!
Quale partita in canotta rossoblu ti è rimasta maggiormente impressa?
Tutte le partite giocate a Beirut all’interno del progetto Basket Beats Borders con le giocatrici del Palestinian Youth Basketball. Rappresentavo l’Atletico San Lorenzo lì ed è stata un’esperienza davvero profonda quella passata nel campo di Shatila con le ragazze. Mi manca giocare e scherzare con loro e mi chiedo quando ci rivedremo, spero davvero presto!
Quali i successi che ricordi con maggiore piacere?
La decima vittoria consecutiva in serie C di quest’anno fuori casa.
Quale sfida rigiocheresti per ribaltare il risultato maturato allora?
La gara con la Luiss per le semifinali del CSI di due anni fa. Giocavamo fuori casa ed avevamo, forse per la prima volta, un tifo potentissimo. Eravamo molto emozionate. Mi è dispiaciuto non portare a casa quella partita... mi piacerebbe rigiocare una partita così con un tifo così e con il gruppo squadra di adesso.
La stagione in corso si è purtroppo arrestata assai prima rispetto al naturale epilogo del campionato: rispetto alle premesse di inizio anno come giudichi il campionato fatto dalla tua squadra?
Meritato. Prime del nostro girone. Ci siamo meritate questa soddisfazione dopo anni in cui siamo sempre rimaste affiatate come gruppo, siamo cresciute con gli allenamenti e non abbiamo smesso di credere che potevamo dire la nostra in questo campionato. Le nuove arrivate hanno portato chi ottima tecnica, chi gambe e tutte subito la passione per questi colori… l’amalgama del tutto è stata perfetta. Abbiamo chiuso a fine febbraio prime a pari merito del girone dopo una scia di 10 vittorie consecutive!
In questi mesi di attività sportiva assai limitata, se non del tutto assente, hai ritenuto leso il diritto allo sport per tutte e tutti?
Sì, nella fase 1 e 2, e ancora ora nella 3, è stato evidente come lo sport non è riconosciuto come un diritto, ma come un hobby. Fare sport all’aria aperta oltre a contrastare problematiche fisiche e psicologiche è un diritto per bambini e bambine che si sono visti privati/e degli spazi pubblici (già scarsi e decadenti) in cui giocare e fare sport. Lo sport è un gioco che segue regole specifiche. Ci sono dei giochi, così come degli sport, per i quali il contatto fisico non è necessario. Nella fase 1 i cani potevano scendere a passeggiare o correre, i bambini e le bambine no. Fino a ieri le attività ludiche-sportive ricreative erano vietate al parco, non so come sarà domani, ma siamo a metà giugno e se dovessimo seguire le regole al 100% non potremmo fare due tiri a canestro rispettando le distanze o dare un calcio ad un pallone nel parco. Ed è assurdo. Questo aspetto della vita delle persone non si vede come una necessità probabilmente perché fare sport all’aperto è gratis e non muove capitali economici.
Al momento non abbiamo certezze sulla ripresa della prossima stagione, in attesa che si riabbia la possibilità di fare attività fisica agonistica, cosa ti auguri? Come vorresti fosse lo sport dopo la pandemia?
Mi auguro accessibilità. Scelte economiche e politiche davvero accessibili da parte della FIP per l’iscrizione ai campionati e da parte delle amministrazioni locali, rinnovo/aperture degli spazi verdi dove poter giocare e fare sport per tutte e tutti, a cominciare dalle più e dai più piccole/i.
Serata di autofinanziamento al Sally Brown organizzata dal basket femminile.
Ricordando Tina Costa.
Proiezione della nazionale di basket femminile a Communia.
"E' sempre il compleanno di qualcun@!"
Si festeggia coi tifosi dopo la rimonta e la vittoria ad Ostia.
Momenti di giovialità made by Becks.