Nello sport le donne non hanno gli stessi diritti degli uomini. Un approfondimento legislativo sul tema a cura di una avvocata nostra socia, a supporto della campagna #ioloso lanciata a seguito dell'emblematico caso di Lara Lugli.
Un altro genere di sport.
di Ilaria Dello Ioio.
L'art. 37 della Costituzione sancisce che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione"
La salute della donna lavoratrice e del nascituro, il suo diritto a pari condizioni di lavoro e a pari opportunità sono tuttavia negati alle atlete professioniste, che si ritrovano in un cono d'ombra del diritto, assoggettate alle decisioni del CONI, che nega loro ogni tutela, e a quelle delle società sportive, che concedono loro – solo a volte e per buon cuore - un diritto costituzionalmente garantito.
Infatti, la legge n. 91 del 1981, che ha introdotto la disciplina del contratto di lavoro sportivo, si limita a qualificare gli atleti professionisti come coloro che “esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica”.
Per essere considerate professioniste, quindi, non è solo necessario che le atlete svolgano attività sportiva a titolo oneroso con continuità, ma viene lasciata alle singole Federazioni sportive la libertà di decidere i criteri, con cui distinguere fra gli atleti professionisti e quelli dilettanti.
Al momento le federazioni sportive italiane affiliate al CONI che hanno riconosciuto il professionismo sono: Federazione Italiana Giuoco Calcio (F.I.G.C.), Federazione Pugilistica Italiana (F.P.I.), Federazione Ciclistica Italiana (F.C.I.), Federazione Motociclistica Italiana (FMI), Federazione Italiana Golf (F.I.G.), Federazione Italiana Pallacanestro (F.I.P.).
Tuttavia, non tutte le competizioni hanno il diritto e il privilegio di potersi definire professionistiche. Per una strana coincidenza, sono tutte competizioni maschili. Il mancato riconoscimento del professionismo femminile ha conseguenze che incidono negativamente sulla tutela, l'autodeterminazione e sulle pari opportunità della donna lavoratrice sportiva.
Il caso di Lara Lugli è emblematico: la maternità della pallavolista è stata definita un grave inadempimento contrattuale e il contratto impostole dalla ASD Volley prevedeva la risoluzione del contratto per giusta causa per comprovata gravidanza. La sua legittima richiesta di ricevere il pagamento delle somme concordate è stata opposta in Tribunale e le è stato richiesto il pagamento dei danni, che la gravidanza avrebbe arrecato alla società.
Questa vicenda riporta l'Italia a una condizione femminile oscurantista e paternalistica, in cui il corpo della donna è di proprietà della società sportiva, pena il risarcimento del danno. La stessa mancanza di tutela si estende a tutti i diritti riconosciuti ai lavoratori e alle lavoratrici: le Federazioni scelgono chi considerare professionista e chi no, di chi tutelare il lavoro e di chi no.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea non distingue tra attività sportive professionistiche e dilettantistiche, ma guarda alla natura economica o meno dell’attività svolta: ai fini della qualificazione di un’atleta quale professionista, è sufficiente che questa sia stipendiata periodicamente a fronte di un obbligo di effettuare una prestazione sportiva in forma subordinata, che costituisce la sua attività principale.
Riconoscendo alle disposizioni federali valore vincolante circa la qualificazione dei rapporti tra gli sportivi e le società, si consente all’autonomia privata di sottrarre rapporti di natura sostanzialmente lavoristica alla tutela per essi apprestata dalla Costituzione e dal nostro ordinamento.
Secondo Pierre De Coubertin "tutti gli sport devono essere trattati sulla base dell'uguaglianza", ma il mondo sportivo italiano non riconosce uguaglianza, tutela e diritti alle lavoratrici dello sport.
E' quindi essenziale e urgente la modifica della disciplina dello sport professionistico, guardando alla natura economica dell'attività svolta, liberando le atlete dalla schiavitù delle Federazioni sportive e delle società.